Daniele
si è fermato a Ventotene solo due giorni. E devo confessare che
nonostante i timori iniziali, la sua visita mi ha fatto molto
piacere. È stato molto gentile e ha voluto che gli mostrassi i
posti di Ventotene che mia madre amava di più. Per prima cosa l’ho
accompagnato a punta Eolo. Abbiamo attraversato il sentiero nascosto
vicino al cimitero, rigoglioso, in questo periodo dell’anno, di
aloe, fichi d’india, ginestra, e canne. Ci siamo arrampicati sulle
rocce, abbiamo sbirciato nell’area archeologica della villa di
Giulia e gli ho raccontato di quante storie ci inventavamo sugli
antichi abitanti di quei ruderi che all’epoca erano completamente
abbandonati. Poi ci siamo seduti sul nostro scoglio, quello in “pizzo
in pizzo” dove contavamo le barche e aspettavamo il traghetto.
Siamo rimasti in silenzio a guardare l’orizzonte. Ognuno assorto
nei propri pensieri. Stava per alzarsi e tornare indietro quando
l’ho preso per una mano e lo fatto rimettere seduto. «Perché hai
voluto vedermi?», gli ho chiesto. Avevo rimandato la domanda per
tutta la passeggiata aspettando il momento più adatto. Era arrivato.
«Speravo
che me l’avessi chiesto, Sole. Voglio che tu sappia la verità. E
il regalo che ti ho portato ti aiuterà a farlo. Intanto vorrei
raccontarti una storia partendo dalla fine. Dall’ultima sera che
Maria ed io ci siamo visti. Mentre l’accompagnavo a prendere l’auto
mi ha confidato di aver scoperto chi sia chi era quell’Igor che
stava cercando da alcune settimane e di aver capito chi era a gestire
il sequestro Moro. Era nervosa perché non sapeva come comportarsi.
Le dissi di stare attenta. Mi baciò per l’ultima volta». Quello
che accadde due giorni dopo è storia. La storia della mia vita.
Era
il primo maggio del 1978 e mamma mi stava raggiungendo a casa di
nonna a Campagnano. Con la sua Renault 4 rossa si è schiantata
contro un camion che con il suo carico di 300 quintali di pomodori
arrancava a 45 chilometri l’ora sulla Cassia bis, subito dopo le
Rughe. Non c'è stato nulla da fare. Il caso fu frettolosamente
archiviato come incidente. Ma Daniele mi ha detto di non averci mai
creduto.
«Innanzitutto»,
ha ripreso a raccontare accendendosi il sigaro che teneva spento tra
le labbra, «è curioso che il camionista avesse deciso di fare quel
viaggio proprio il Primo maggio. Perché invece di godersi il
meritato riposo della festa dei lavoratori si è messo alla guida»?
«Ma
la cosa più strana», ha insistito, «è che niente dei suoi effetti
personali furono riconsegnati a tuo padre. Neppure i suoi vestiti o
le cianfrusaglie che aveva in tasca e nella borsa. Così come non c’è
più traccia al ministero degli Interni del rapporto che la polizia
stradale promise di inviare insieme ai documenti e il materiale
trovato nell’auto». Daniele mi ha detto di essere convinto che ci
fosse qualche cosa legata all’indagine sulla quale tu stavi
lavorando. Io non riuscivo a capire di cosa stesse parlando e non so
se mi interessa, visto che ripensare alla tua morte mi fa star male.
«Secondo
me quell’Igor di cui parla tua madre è Igor Markevitch», ha
continuato Daniele dopo aver aspirando profondamente il cubano nel
silenzio più totale. «Il 14 ottobre 1978 una fonte del Senato
segnalò che un certo Igor aveva avuto un ruolo di primo piano
nell’organizzazione delle Brigate rosse e che, in particolare,
avrebbe condotto tutti gli interrogatori di Moro, della cui
esecuzione sarebbero stati autori materiali certi “Anna” e
“Franco”. La persona fu identificata con Igor Markevitch, grande
direttore d’orchestra di fama internazionale, oriundo russo ed ora
cittadino italiano, coniugato con Topazia Caetani. Ma dopo alcuni
accertamenti con l’intervento dei servizi segreti, non emersero
elementi concreti che indicassero nel maestro l’appartenenza alle
Brigate rosse. Sul finire degli anni Novanta, trapelarono strane
notizie sulla possibile presenza alle riunioni del comitato esecutivo
delle Brigate rosse di un personaggio di primissimo piano. Fu il
dissociato Valerio Morucci che parlò di un “anfitrione”, di un
personaggio misterioso che a suo dire avrebbe messo a disposizione
delle Br, per le riunioni, una villa vicino a Firenze. Da successivi
elementi emerse l’ipotesi che l’uomo potesse essere proprio
Markevicth, che tra le altre cose aveva un passato nella resistenza
nelle formazioni dei Gap».
Daniele
si è alzato e si è avvicinato al precipizio. Ha proseguito il suo
monologo come se si trovasse su un palcoscenico, di fronte al
pubblico. La cosa mi ha dato un senso di nausea e credo di essermi
distratta. «Man mano che prendeva quota la leggenda del Grande
Vecchio, il senatore Pellegrino, presidente della Commissione Stragi,
riaprì le indagini su alcune segnalazioni che le inchieste
giudiziarie avevano tralasciato, e a poco a poco prese corpo una
storia straordinaria. Pellegrino affidò le indagini al maggiore
Massimo Girando dei ROS, uno dei migliori uomini dell’arma dei
carabinieri, direttamente alle dipendenze del generale Mori, allora
comandante generale dei carabinieri. L’indagine, che si concluse
nel 2001, portò alla scoperta di un intreccio di poteri forti,
intelligenze segrete, massonerie internazionali che sarebbero ad un
certo punto subentrate nella gestione del sequestro Moro. Mi
ascolti?».
Sì,
stavo ascoltando. Ma facevo fatica a star dietro a quello che mi
stava dicendo. Non ho osato però fare domande. Ho avuto paura di
sapere. «Igor Markevicth», ha seguitato Daniele accendendosi il
sigaro ormai spendo, «si scoprì che già durante la prigionia del
presidente Dc era noto al Sismi. Ma le indagini condotte su di lui
dal servizio segreto furono interrotte da un intervento “superiore”.
Era il primo maggio 1978, mancava ancora una settimana al compimento
della tragedia, quando due agenti del nostro controspionaggio si
recarono a Palazzo Caetani, nella stessa strada dove otto giorni dopo
sarebbe stata ritrovata la Renault rossa con il corpo di Moro. I due
agenti, su richiesta del loro diretto superiore, cercavano
informazioni su un certo Igor Caetani, ma non c’erano discendenti
maschi nella nobile famiglia romana. L’ultimo era Michelangelo che
aveva avuto soltanto una figlia femmina, Topazia, sposata con il
musicista Igor Markevicth, direttore dell’Accademia di Santa
Cecilia, dal quale però era ormai divorziata. Il domicilio di
Palazzo Caetani era da tempo di Hubert Howard, vedovo di Lelia, la
cugina di Topazia morta da oltre un anno. Le indagini si bloccarono
per colpa di un non meglio identificato “ordine superiore”, forse
impartito dal capo del Sismi e ai due agenti, non restò che
constatare che la missione era fallita proprio lì, in via Caetani,
quando si stava per aprire la “porta segreta”».
In
quel momento moriva mia madre.
In
silenzio mi sono alzata e sono andata via con gli occhi pieni di
lacrime. Se avessi potuto lo avrei fatto scomparire, ma Daniele mi è
venuto dietro cambiando completamente discorso.
«Non
ha mai voluto che la raggiungessi qui», ha iniziato a urlare mentre
mi raggiungeva. Io avevo già ripreso a a ritroso il sentiero in
mezzo alle ginestre e le aloe. «E dopo la sua morte non ha avuto più
senso venire a Ventotene. Ora che sento il profumo che tua madre ha
cercato di descrivermi un’infinità di volte, ora che vedo il
colore del mare e lo spettacolo affascinante di Santo Stefano ho
finalmente capito perché diceva che era un’isola magica. Un’isola
che secondo lei ha il potere di ammaliarti e di non lasciarti più
andare via. Ma queste sono cose che tu sai meglio di me».
È
vero. Mia madre avrebbe voluto vivere qui a Ventotene. Avrebbe voluto
mollare tutto e trasferirsi qui con me. Ma poi c’era sempre
qualcosa che la faceva desistere, cogliendo comunque ogni occasione
per tornarci, soprattutto d’inverno quando c’erano al massimo
duecento persone.
Ho
invitato Daniele a togliersi le scarpe e a camminare scalzo, così
come faceva lei. Sostenevi che in questo modo si poteva incamerare
l’energia del vulcano del quale Ventotene rappresenta solo la parte
visibile, e io ci credevo. Ci credo. Ce le siamo tolte entrambi ed
abbiamo camminato a piedi nudi fino a piazza Castello per prenderci
l’aperitivo da Verde.
«Mia
madre era innamorata di te?», gli ho chiesto tutto d’un fiato
cercando di cogliere sul suo viso un’espressione che mi desse la
risposta prima ancora della sua voce. Daniele si è acceso ancora una
volta il sigaro prima di parlare. Ha aspirato e gli occhi si sono
illuminati come la brace del toscano che teneva in bocca. «Credo di
sì. A modo suo, ma credo di sì».
«E
tu?», lo ho interrogato ancora.
Anche
questa volta la risposta non è stata immediata. Come se volesse
trovare le parole giuste: «Ho cercato di negarlo anche a me stesso,
ho fatto di tutto per non dimostrarglielo. Per dimenticarla. Ma non
ci sono riuscito, anche se mi faceva stare male».
«Mia
madre ti faceva stare male? Zia dice che eri tu a farla stare male»,
lo ho interrotto incuriosita, ma anche orgogliosa di avergli estorto
questa confessione che ribalta completamente la tesi di Moira per cui
tu eri vittima del fascino di quell’uomo.
«Non
la capivo. Diceva di amarmi, ma non avrebbe mai lasciato tuo padre
senza di te. Perchè a modo suo amava anche lui, che la tradiva e la
trattava come una pazza. Non voleva privarlo della gioia di stare con
sua figlia. Era una donna libera, ma con un grande senso di
responsabilità. Non credo che Maria abbia mai avuto altre storie.
Con me era diverso, perché noi non eravamo amanti, noi stavamo anche
giorni senza vederci o sentirci, noi non ci facevamo promesse, il
sentimento che ci legava era qualcosa di trascendentale che non aveva
niente a che vedere con il sesso e il possesso. Purtroppo trent’anni
fa non sono stato capace di comprenderne l’importanza, e oggi darei
qualsiasi cosa pur di abbracciarla, di baciarla, di rassicurarla che
quello che lei provava per me era esattamente quello che io provavo
per lei. Se solo avessi avuto il coraggio di dirle che l’amavo,
forse il destino sarebbe stato diverso».
Daniele
mi ha guardato negli occhi in attesa di commento, di una replica a
quanto mi aveva appena rivelato. Ma io non sapevo cosa dire, perché
non riuscivo a capire che effetto avesse avuto su di me questa
dichiarazione d’amore per mia madre aggiunta ai dubbi che mi aveva
insinuato a Punta Eolo. Per fortuna si è avvicinata al nostro tavolo
una signora per chiedergli l’autografo. Rimessi i panni dell’attore
famoso, abbiamo iniziato a chiacchierare di cinema, dei suoi
colleghi, dei registi e dei film in circolazione.
Ho
anche cucinato per lui. Pasta alla norma. Anche questo, ha detto
Daniele, era il segno che io sono uguale a mia madre. Pure lei la
preparava spesso, ma per il semplice fatto che era una delle poche
cose che sapevi cucinare. Però, ho evitato di dirglielo.
Abbiamo
parlato molto anche di lui. Si è sposato, ha divorziato, e da
qualche tempo sta con un’attrice più giovane di venti anni. Non ha
figli. Mi ha detto queste cose come se non si rendesse conto di
essere una persona famosa, che la sua vita è pubblica, raccontata
sui rotocalchi. In effetti non sembra sentirsi un vip, non si
comporta come la gente immagina si comporti uno che ha successo, ha i
soldi, fa la bella vita. Mi è sembrato un uomo come tanti, con i
suoi pensieri, con il suo passato che è ancora troppo presente. In
un certo senso mi fa persino tenerezza. Mi ha confidato di essere
stato spesso tentato di rintracciarmi, di vedermi, di parlarmi, ma la
timidezza ha avuto sempre il sopravvento. Poi un giorno ha incontrato
Francesco De Blase, un amico giornalista di mia madre, che gli ha
detto che ero incinta, che stavo a Ventotene. Si è fatto dare il
numero del cellulare, ma sì è deciso a chiamarmi solo dopo diverse
settimane.
«Comunque
non erano tutte rose e fiori con Maria», ha detto pure. «Era
complicata, testarda, permalosa. Non c’erano vie di mezzo con lei.
Non si poteva dare niente per scontato. Quando si metteva in testa
una cosa, nessuno riusciva a farle cambiare idea. Doveva rendersene
conto da sola e poi forse ammetteva di aver sbagliato. Ricordo di una
sera che dovevamo andare ad una festa, io però stavo male e gli
dissi che non avrei potuto accompagnarla. Mi disse di non
preoccuparmi e ci andò con la sua amica, Moira. In realtà alla
festa ci andai. Ma non ebbi modo di avvertirla perché a quel tempo
non c’erano i cellulari. Quando mi vide lì non disse nulla, non
venne neanche a salutare. Mi mandò tramite Moira un bigliettino con
su scritto sei uno stronzo. Poi scomparve. Non si faceva vedere in
giro, non rispondeva al telefono. Dopo un mesetto, un bel giorno, mi
aspettò fuori dal teatro con un regalo, un libro. Non volle sentire
spiegazioni, né volle più parlare di quella serata. Era fatta così.
Però era anche molto dolce, sapeva ascoltare, sapeva dare consigli.
E poi era generosa, forse troppo. Anche su questo litigavamo spesso.
Mi comprava cose per la mia casa, libri, dischi, quadri. Io mi
sentivo in imbarazzo e glielo dicevo. Ma era come parlare al vento.
Anzi si offendeva rispondendo che lei faceva quello che voleva».
Già,
mia madre hai sempre fatto quello che voleva. Non le importava nulla
dei giudizi della gente, né di quello che pensavano i suoi amici. Ad
esempio, mi ha raccontato Daniele, di quando ha chiesto a Ciccio,
cioè a Francesco, di collaborare con lei. «Era un ragazzo che
voleva fare il giornalista e tua madre gli insegnò il mestiere. Non
gliene importava nulla che i suoi compagni la mettessero in guardia
perché frequentava la facoltà di Giurisprudenza. Perché bastava
questo, a quel tempo, per farsi etichettare come “fascista”. A
Maria non interessava con chi era stato visto ripassare una lezione o
scambiarsi gli appunti. Gli interessava come si comportava. E lui, a
quanto diceva lei, si comportava bene. Ma questo per i compagni, i
suoi amici, era semplicemente assurdo, inconcepibile. Ciccio ora è
un apprezzato giornalista e questo lo deve esclusivamente a tua
madre. In generale Maria è stata molto liberale nei rapporti
interpersonali. Ha sempre avuto una tendenza a mettersi nei panni
dell’altro, ad assumere il punto di vista del suo interlocutore. E
questo in politica era considerato un difetto, ma a lei non
importava. Detestava l’arroganza di chi si sentiva dalla parte del
giusto».
Ho
voluto sapere da Daniele come si sono conosciuti, forse per non
pensare alle Br, al sequestro moro, a Igor, ai servizi segreti, e a
tutte quelle informazioni che mi aveva vomitato addosso a Punta Eolo.
Volevo che mi raccontasse cosa facevano insieme. Di che cosa
chiacchieravano. Ha iniziato a parlare solo quando l’ho lasciato in
veranda per andare a mettere in tavola la cena, quasi avesse bisogno
di non distrarsi per ricordare.
«Venne
a La Fede, la cantina di porta Porta Portese di Giancarlo Nanni e
Manuela Kustermann. Avevamo messo in scena il Risveglio
di primavera di
Wedekind. Era il 1972. Ci siamo conosciuti lì. Mi disse che lo
spettacolo le era piaciuto molto, ma anche che assolutamente
ignorante sul teatro d’avanguardia. Mi chiese di farle da maestro.
La prima lezione gliela diedi immediatamente. Il termine
“avanguardia” è un termine improprio, dissi imitando uno di quei
professori isterici che insegnavano all’accademia. Le avanguardie
riguardano e si fermano a quelle storiche del primo Novecento. Da ora
in poi voglio sentirti parlare di “sperimentazione” o di
“ricerca”. Lei scoppiò a ridere e mi assunse come suo insegnante
personale».
Daniele
mi ha detto che a quel tempo era un giovane attore. Si era iscritto
all’Accademia d’Arte Drammatica, ma ben presto smise di
frequentare perché riteneva quel sistema d’insegnamento superato.
Non teneva conto dei sommovimenti politici e sociali, né
dell’energia combattiva che il teatro intendeva liberare per
partecipare attivamente al trionfo delle ideologie, alle battaglie
del femminismo, alle rivendicazioni del mondo gay, all’amore
libero, alla libertà delle droghe. Iniziò a frequentare le cantine
teatrali dove le compagnie altro non erano che gruppi formati
perlopiù da amici, amanti, sorelle, fratelli e molto raramente da
scritturati. Un po’ dei clan che si raccoglievano intorno a
un’identità di vedute e a un desiderio di esprimersi tramite il
teatro. Tutti facevano tutto. E non solo per via di una libera e
consapevole scelta. Le scarse possibilità economiche imponevano che
chi contribuiva a mettere in scena il testo potesse avere voce in
capitolo. Così, anche se lo spettacolo era siglato dal nome del
regista, veniva considerato un’elaborazione collettiva.
Daniele,
da parte sua, ricorda per filo e per segno il loro primo appuntamento
al Beat 72. «Si chiamava così», mi ha spiegato subito dopo essersi
complimentato per l’ennesima volta della riuscita del mio piatto,
«perché “beat” era una parola magica che coniugava cultura e
stili di vita, e 72 perché si trovava al numero 72 di via Gioacchino
Belli». Aveva un ingresso molto piccolo, ha detto, con una stretta
scala che andava giù ripidissima. Si scendeva e c’era una specie
di piccolo antro che serviva da biglietteria, un corridoio usato come
foyer e poi tre stanze in successione, ad arcate. Un’altra sala,
attigua all’ultimo di questi vani, serviva per deposito e camerini.
L’unica entrata, e quindi anche l’unica uscita, era la porticina
in alto. «Era novembre 1972, la sera del debutto di uno spettacolo
che immediatamente diventò celebre e fu tra quelli italiani più
visti anche all’estero: Le
120 Giornate di Sodoma di
Giuliano Vasilicò. Il pubblico della prima era molto irriverente,
dava pacche sul sedere agli attori scatenandosi in commenti salaci,
tanto erano tutti amici. Vasilicò scompose il testo di De Sade
sintetizzandolo in ventuno scene immerse in un buio totale solcato da
fasci luminosi. Maria», ricorda Daniele come se fosse successo la
sera prima, «rimase colpita dall’interazione tra i frammenti
testuali, gli interventi musicali martellanti ed il ritmo impresso,
tutto scandito sul vorticoso movimento dato ai carrelli che
trasportavano gli attori. Una sinfonia di fantasmi lussuriosi che si
materializzavano dal nero e giravano vertiginosamente alla luce, per
poi ritornare ad essere ingoiati dalle tenebre. Una rappresentazione
che indubbiamente colpiva per la centralità trionfale accordata al
corpo dell’attore. Un corpo nudo, ovviamente, perché era uno dei
più importanti elementi alla base del teatro sperimentale».
Con
Daniele mia madre si vedevano quasi esclusivamente a teatro, almeno
così ha detto. Lei sempre tra il pubblico, qualche volta con me in
braccio, addormentata. Lui spesso sul palcoscenico. Nel 1973 debuttò
nel Pirandello,
chi? di
Memè Perlini e si ricorda che mia madre gli ha regalato un enorme
mazzo di margherite. «Hai letto i Sei
personaggi?»,
mi ha chiesto. «Immagina di addormentarti e di sognarli.
Questo
era lo spettacolo. Dei Sei
personaggi rimanevano
brandelli. C’era una grossa invenzione visiva. C’era il
personaggio-figlia sempre impegnato in esercizi fisici molto
difficili e complicati, noi attori truccati vistosamente, suggestioni
futuriste e surrealiste, con un sguardo privilegiato alle arti
plastiche. Ricercare i Sei
personaggi era
veramente arduo… quello che bisognava fare era lasciarsi andare al
flusso onirico che colpiva lo sguardo dello spettatore, e questo lo
spettacolo riusciva perfettamente a permetterlo».
Daniele
ha detto di averle fatto conoscere pure Mario Ricci. Io ho ammesso di
non averlo mai sentito nominare e lui mi ha spiegato che in quegli
anni era molto famoso perché strutturava il suo lavoro come un
gioco: prendeva un testo, lo smontava, dopodiché poteva utilizzarne
anche solo delle immagini. Mi ha fatto l'esempio di Moby
Dick,
che sembrava ambientato nell’antro delle streghe di un parco
giostre, completamente realizzato con scenografie di cartone dipinto.
"Nel finale", ha raccontato, "l’enorme bocca di Moby
Dick ingoiava il capitano Achab, intento per buona parte del tempo
della rappresentazione a giocare al solitario con dei grossi mazzi di
carte, o a scrutare l’illusorio orizzonte con un cannocchiale. A
Maria piaceva tantissimo perché analizzava, scomponeva e si
irrobustiva con l’immissione di una visione personalissima del
mondo. E anche se a volte le proposte vacillavano per mancanza di
adeguati supporti teorici, c’era una grande forza scenica e
visionaria che l’affascinava. Ricci divenne il suo autore teatrale
preferito».
Io
non ho voluto contraddirlo più di tanto, ma da quel che so io, mia
madre eri "fissata" per il Living Theatre. Considerava
Paradise,
now!,
che avevi visto con papà ad Avignone nel 1968, un percorso politico
spirituale da seguire.
Un percorso da compiere per tappe, sull'esempio dei rituali
religiosi, dove la liberazione di tutti gli uomini, rappresenta
l’ultimo atto, l’ultimo gradino di una scala simbolica verso la
rivoluzione.
Daniele
ha detto che lei non gliene ha mai parlato, spiegandomi che il posto
più politicizzato che frequentavate insieme era Spazio Zero a
Testaccio. Che era un costituito da un tendone da circo, senza
riscaldamento e dove si moriva, letteralmente, di freddo. «Tua madre
in questo spazio si sentiva a casa», ha sottolineato Daniele. Lui
meno. E a un certo momento decise che era arrivato il momento di
partire. Se ne andò per un po’ in Toscana, poi lasciò l’Italia.
E l’addio a te è impresso nella sua memoria come se il tempo si
fosse fermato.
«Ancora
ho negli occhi le parole di quella sera», mi ha detto. «Di quando
mi passò a prendere con la sua Renault4 rossa, sventolando quei due
biglietti, mentre suonava il clacson con la sigaretta in bocca. Con
i capelli ribelli e tutti quegli anelli alle mani che quasi le
impedivano di prenderci per mano. Ancora me la ricordo. E nelle
orecchie risento la colonna sonora di quella giornata. Che è
iniziata con Touch
me
dei Doors ed è finita con il Testamento
di Tito
mentre riflettevo sull’ultima discussione che avevamo avuto. Tua
madre mi passò a prendere a Pontedera, dove mi ero rifugiato
nell’ultimo mese. Era marzo del 1973. La sera prima avevamo
litigato al telefono. Continuavo a sostenere che eravamo diversi,
perché io sono comunista. E lei anarchica. O meglio, io forse sono
più anarchico di lei, sempre che ci siano dei gradi di anarchia, ma
darle ragione quando mi diceva che lo siamo tutti mi dava fastidio.
Per fare pace mi propose di andare al concerto di De Andrè».
A
questo punto Daniele si è fermato. Forse non sapeva se era il caso
di continuare. O forse voleva ricostruire i pensieri di quel giorno
in maniera logica.
«Forse
ero cinico, forse troppo. Ma l’amore rende cinici, è troppo grande
per non esserlo, si rischia di morire dentro prima che fuori.
L’anarchia è anche quella del non divenire, non divenire per
essere sempre lo stesso, come fosse quella rivoluzione permanente che
Bakunin predicava perché non cambiasse nulla nell’ordine, ma che
dico ordine, del non governo di nessuno, perché l’animale che è
in ogni uomo non arrivasse a voler comandare sugli altri. Fermarsi un
gradino prima e festeggiare su quello scalino con una rivoluzione
permanente. Aveva ragione, ma non glielo ho mai detto, perché
davanti a lei dovevo sostenere che Lenin ha applicato il migliore dei
mondi possibili e che gli anarchici sono solo degli schiavi dei
pensieri e fanno poca azione perché è faticosa. Un po’ come la
differenza fra i politici e i sindacalisti, i primi parlano, gli
altri si sporcano le mani con gli operai. Eppure così io volevo
vivere. In perenne rivoluzione con me stesso per non cambiare più.
Mi piaceva essere così, ascoltare e non parlare, sperare ma non
aspettare, cantare e non aprire bocca, amare e non dichiararlo.
Pavido e sicuro al tempo stesso. Era la giusta strada per morire come
Anna Karenina, sotto il treno della fatalità senza aver mai comprato
un biglietto per partire».
«Quella
mattina il mio umore era nero e mi sembrava che nulla potesse farmi
uscire da quella spirale di pessimismo su ogni futuro pensabile. Ma
era arrivata lei, con i due biglietti per l’Eden, o meglio per la
migliore approssimazione del paradiso terrestre di quei due sfigati
di Adamo ed Eva, traditi da un banale morso a una mela bacata.
Stavamo per andare a sentire, vedere, godere e vivere Faber».
«Volevamo
distruggere, ricostruire e curare il nostro nuovo mondo, ma non ci
eravamo accorti che il mondo che volevamo costruire era quello che
iniziava nella zona occipitale del nostro cervello e finiva sulle
papille della lingua, proprio un attimo prima di dire qualsiasi cosa
o tradurre un qualsivoglia idea. Era amore, semplicemente amore. Ora
lo posso dire, senza rischio di sbagliare. Eravamo una sola idea e un
solo inutile orgoglio di non voler ammettere che eravamo una sola
cosa. Che stupidi. Ma forse è stato proprio quel volersi sentire
diversi, anche dalla propria anima gemella, che ci ha reso unici,
veramente unici ai propri occhi, orgogliosi di un’artefatta e
presunta diversità».
«Siamo
arrivati che tutti erano già lì, il biglietto non serviva perché
nessuno l’ha controllato, tanti erano quelli che avendo vantato il
diritto di poter ascoltare senza pagare, fugavano la necessità
sovrastrutturale di brandire un pezzo di carta per vantare un diritto
che era giustamente di tutti. Di quel concerto ricordo perfettamente
la sua pelle, i suoi occhi e la sua commozione, intima, forte e
sconcertante. Portava con sé un corpo che non aveva ancora trovato
quel piccolo barlume finale che le avrebbe consentito di esplodere in
un urlo. “Di
respirare la stessa aria dei secondini non mi va, perciò ho deciso
di rinunciare alla mia ora di libertà”,
cantava lui dal palco e lei stringeva il pugno, quasi a lacerarsi le
dita contro gli anelli. “se
c’è qualcosa da spartire fra un prigioniero e il suo piantone, che
non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che sia prigione”,
continuava lui e Maria quasi piangeva di rabbia. Forse perché sua
sorella, tua zia, era stata beccata dalla polizia qualche giorno
prima perché aveva un fucile dentro l’auto, e rischiava di finire
in galera. La amavo più di quanto le parole avrebbero potuto
descrivere e il mio cinismo era sommerso dalla bellezza indomabile di
quel momento. Ero preda dell’amore e della voglia fisica di
stringere quel corpo e farlo una cosa sola con il mio. “Quando
in anticipo sul tuo stupore, verranno a chiederti del nostro amore. A
quella gente consumata nel farsi dar retta, un amore così lungo, tu
non darglielo in fretta”.
De André continuava a cantare, non si rendeva conto cosa significava
per me quella frase. Ero dilaniato dal dolore indotto da quel quadro
che aveva creato Faber. Una tela di Fontana con un taglio netto e
verticale, inesorabile e ineluttabile come la morte del mio cuore in
quel momento. Fui costretto a pensare ad altro da un’improvvisa
manifestazione degli operai della Piaggio. Che scandirono, con un
certo disappunto generale, slogan contro i padroni e per la libertà
dagli oppressori. Fabrizio non era in disaccordo e si era fermato, ma
si leggeva nei suoi movimenti e nelle boccate di sigaretta un po’
più nervose, mentre era seduto sul suo piccolo sgabello con accanto
un bicchiere di wisky, che l’arte e la poesia non dovevano essere
profanate dalla lotta di classe. Forse perché, come me, pensava che
la lotta dei deboli e degli oppressi già trasudava da ogni verso
delle sue canzoni. Bastava ascoltare. Ma le parole di un altro non
sono le proprie e il desiderio di espressione aveva tutto il diritto
di essere ascoltato.
«“Anche
se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura
di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato
le vostre 1100. Anche se voi vi credete assolti siete per sempre
coinvolti”.
A questi versi lei si mise a piangere. Sentiva il dolore e la
rassegnazione generazionale di un esercito di incompresi. Io no,
perché credevo, e credo ancora, che un esercito non può essere
incompreso, ma solo pavido. Per me lottare era la prima cosa, per
Maria il pensiero di perdere diventava un alibi per piangersi addosso
e trovare una giustificazione alla compassione per gli altri e
all’autocommiserazione di se stessi».
Daniele
si è interrotto e mi ha guardato come se ci fossi stata Maria al mio
posto. Con severità mista a quella tenerezza che forse non le ha mai
dimostrato ha ripreso: «Questo ricordo. Questo voglio ricordare e
non il fatto che abbiamo litigato in macchina anche dopo il concerto.
Voleva fare l’amore, ma solamente per soddisfare l’istinto di
dare un senso a quel sentirsi soli, con il bisogno di essere parte di
un altro mondo, anche fisicamente. L’allontanai da me senza
spiegarle il perché e lei lo prese come un rifiuto. Mi accusò di
non volerle bene, mi disse che non le piacevo. Io non sono riuscito a
spiaccicare una parola mentre avrei dovuto spiegarle che volevo
proteggermi. E proteggerla. Nei giorni seguenti non ci siamo né
sentiti né cercati. E me ne sono andato via, lontano».
Daniele
mi ha raccontato che mise un po’ di roba nella sacca e se andò a
Oslo. Voleva fare la sua esperienza all’Odin
Teatret,
il
gruppo fondato nel 1964 dal regista italiano Eugenio
Barba
e dagli attori norvegesi Else Marie Laukvik e Torgeir Wethal. Voleva
mettersi alla prova. Mi ha spiegato che il metodo di Barba prevedeva
un intenso allenamento
fisico, che doveva preparare alla recitazione,
ma anche selezionare le persone più motivate e dotate di
autodisciplina. L’allenamento o training era inteso non solo come
mezzo per acquisire particolari abilità tecniche, ma
soprattutto come processo continuo di definizione della propria
presenza scenica. Girovagò parecchi mesi prima di tornare a Roma.
Riitrovò
mia madre alla Magliana. C’era un contro-festival e lei doveva
scrivere un pezzo. Daniele conserva ancora nel portafoglio una
fotocopia del ritaglio di giornale datato 22 giugno 1974. «La
Magliana non è un quartiere, è una maledizione, scrivevamo più di
un anno fa su Paese Sera. Ieri sera il contro-festival di piazza Vico
Pisano ha ridato a quella «maledizione» una dimensione umana. II
concerto, organizzato dal comitato di quartiere e da Stampa
Alternativa ha assunto quasi subito la caratteristica della festa
popolare. II confronto con Villa Borghese insomma non c’è stato.
C’erano gruppi e cantanti che facevano la stessa musica, ma il
pubblico, lo scenario, lo spirito era diverso. Piazza Vico Pisano è
uno stretto corridoio fra due lunghe file di palazzi dormitorio
soffocante, disumano. In questo scenario, che è la fotografia di una
Roma sbagliata, c’era un piccolo palco su cui, davanti a un
pubblico composto da giovani, donne, vecchi, lavoratori, e tanti
bambini si sono susseguiti i «numeri» dello spettacolo. Il compito
di aprire è toccato a Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Il
primo venerdì aveva disertato il prato verde di villa Borghese, ieri
ha spiegato che suonare alla Magliana, in un quartiere popolare, fra
la gente che ogni giorno è costretta a combattere i mille problemi
di un vero e proprio ghetto in cui imperversano la malaria e
l’epatite ha ridato alla sua musica una dimensione non asettica,
non neutrale. Il secondo che nell’intervento che ha preceduto il
suo numero ha rivendicato quella libertà di artista che lo ha spinto
a esibirsi anche a Villa Borghese, è stato applaudito freneticamente
quando ha suonato uno dei suoi successi popolari, «Roma capoccia».
Poi è toccato all’altro «pezzo forte», Alan Sorrenti, anche lui
in polemica con la manifestazione «ufficiale». Il «clou» è stato
però rappresentato dal «Trium Delirium», venti ragazzi francesi
arrivati a bordo di tre pulmini con donne e bambini. «In Francia -
hanno spiegato - viviamo tutti in una comune, qualcuno gira suonando,
altri coltivano la terra». Da Roma andranno verso est per fare il
giro del mondo. Alla manifestazione aveva aderito anche Edoardo
Bennato. Il «contro-festival», che ha suscitato un dibattito molto
serrato sulla musica fra gli stessi artisti che si sono esibiti, si è
concluso a tarda notte. Fino alla fine piccoli e grandi hanno vissuto
una serata nuova, diversa, che forse ha rappresentato una occasione
unica per riportare la musica a contatto con i problemi reali di chi
l’ascoltava»1.
Da
quella sera hanno ricominciato a frequentarsi. Lui, mi ha detto, che
l’aiutò a riprendersi dallo shock della strage di Brescia di
piazza della Loggia del 28 maggio. Era in corso una manifestazione
contro il terrorismo organizzata dai sindacati e da un comitato
antifascista. Ci andarono molti suoi compagni e quello che le
raccontarono fu un incubo. Quel giorno morirono otto persone. Altre
94 rimasero ferite.
Iniziò
una storia. Una storia strana, che solo mia madre poteva voler
vivere. Una storia di rinunce e di speranze, di tenerezza e di
rabbia, di attesa e di attimi rubati. «La nostra non era una
relazione fisica», ha ribadito Daniele mentre mi aiutava a
sparecchiare. «Eravamo impegnatissimi, avevamo sempre tantissime
cose da fare. Io a teatro, lei al giornale, con te, con Moira, le
manifestazioni. E quando c’incontravamo parlavamo, discutevamo,
litigavamo per poi starcene anche due o tre ore sdraiati sul divano
in silenzio semplicemente a giocare l’uno con le mani dell’altro.
E poi diceva di essere diventata allergica a qualsiasi tipo di
rapporto sentimentale che potesse catalogare le persone in base allo
stato sociale: coniugata, single, fidanzata. Io invece ero alla
ricerca della donna della mia vita. Volevo mettere su famiglia,
volevo un figlio. E così stavamo insieme senza legami».
Note: